di Raffaele Rivieccio, con la collaborazione di Claudio Caruselli

Gillo Pontecorvo è stato dei massimi registi italiani, forse il più libero nell’interpretazione del concetto di cosa debba essere un intellettuale cinematografico. Un teorema – quello che vede unite cultura e industria della celluloide – fortemente ambiguo per le necessità e le finalità commerciali del Sistema Cinema. La libertà di Gilberto Pontecorvo è stata, innazitutto, una libertà esistenziale che lo ha visto attraversare la vita civile del nostro paese – sin dagli anni ‘40 – esprimendo la propria passione politica e sociale in molteplici forme, dal giornalismo al documentarismo, dalla vera e propria lotta partigiana alla regia cinematografica, dalla critica alla creazione pubblicitaria, fino al ruolo istituzionale di direzione del Festival di Venezia.
Una libertà interna, però, anche alla sua missione registica che non lo ha visto schiavo di esigenze di botteghino che ne svilissero la creatività e la necessità artistica. Pochissimi lungometraggi dimostrano quanto la scelta di rimettersi dietro la macchina da presa fosse dettata da una reale convinzione per il soggetto trattato. Ed, anche all’interno della sua filomografia, Pontecorvo è stato libero dal demone deleterio dell’autorialità, facendo cambiare rotta, ad ogni capitolo, alla sua poetica.Fosse essa documentaristica, melodrammatica, epica o metaforica.
E proprio il tema della libertà è la costante di fondo che trattano tutte le vicende tratteggiate nei suoi film, opere che accomunano il regista a tutta la migliore cinematografia d’impegno degli anni ‘60 e ‘70.
Ho realizzato questa intervista a Gillo Pontecorvo nel 2001 per la rivista telematica Ilcinemante.com, nella sua casa romana ai Parioli. Oggi, alla luce della sua scomparsa, ho dato al nostro incontro un valore nuovo, forse banale, quello di un’ irrepitibile unicità, umana e artistica. La fine di ogni Uomo – non grande, non meschino, ma a tutto tondo com’è stato Pontecorvo – inquina d’uno struggente mal d’Africa ogni avvicinamento al mondo di questo attore della cultura nel senso più ampio. E le domande che ho potuto fargli, allora intrise di esplorante curiosità, oggi si tingono di malinconica definitività.

Una costante ideologica dei suoi film, appare l’analisi della ribellione di uomini sottomessi contro un potere oppressivo, questo da Kapò fino ad Ogro, passando per La battaglia di Algeri e Queimada. Quale situazione sociale o politica potrebbe offrirle uno spunto per un film, oggi?

In generale, più che dire che la linea unificante sia la ricerca nei momenti di rivolta, direi che c’è una volontà di avvicinarsi all’uomo nei momenti più duri, quando cerca di uscire da una condizione difficile. Oggi, penso sia il movimento di Seattle contro la globalizzazione uno snodo importante della società attuale; c’è anche in questo caso una aspirazione a cercare di migliorare arrancando, perchè si arranca sempre nella lotta per un progresso giusto.

Come mai lei non ha mai adottato un approccio diretto nei confronti della realtà italiana, come è invece avvenuto per altri registi, sia della commedia che, soprattutto, del cinema di impegno sociale?

Ho girato soltanto sei film, quindi conta anche la componente del caso.
Il tema che mi è sempre premuto è l’uomo, un interesse ed affetto – se la parola non è pomposa – per l’essere umano. Per seguire questo mio “umanesimo”, mi è capitato finora di seguire storie e situazioni che si svolgevano in un contesto estero. Ma è casuale. Probabilmente, se realizzerò altri film nell’Aldilà, li ambienterò in Italia.
Con Franco Solinas avevamo scelto un tema che riguardava proprio l’Italia, si trattava della Sezione Confino della Fiat. A quell’epoca veniva chiamata così un reparto dove si marginalizzavano i più cambattivi tra i sindacalisti. Un ghetto lavorativo. Era un tema molto interessante, poi all’ultimo momento i produttori hanno avuto paura.

. Tra La battaglia di Algeri, che aveva un approccio fortementente documentaristico, e Queimada, che invece aveva un respiro più epico, oggì quale stile ritiene più efficace?

Ho l’impressione che ogni tema abbia la sua forma. Benedetto Croce affermava che il “fatto artistico” fosse una sintesi a priori di contenuto-forma. E la cosa si attaglia perfettamente al cinema, quindi dire se sia meglio una forma più epica o piuttosto una documentaristica, non è l’approccio giusto. L’approccio, invece, è che, al regista – parlo di film di un certo impegno – si presenti una sintesi a priori, tra contenuto e forma appunto, che assecondi naturalmente il suo racconto. E quella è, per chi gira, la forma migliore, quella che gli nasce dentro, l’unica possibile.

Negli anni di direzione del Festival di Venezia, ha maturato la convinzione che il cinema si possa aiutare maggiormente da un punto di vista organizzativo o da quello “artistico” del regista?

Difficilissimo rispondere perchè contano entrambe le componenti. La realizzazione di un film è, purtroppo, una forma di espressione o di arte – per chi la vuol chiamare arte – molto costosa. E quindi dipende fortemente dal sistema organizzativo, quali sono le leggi, quale è la situazione generale. Anche se poi, però, non è legato in maniera così diretta, ci sono dei margini di libertà, ci sono gli esempi di un cinema povero – come durante gli anni della Liberazione e del primo Neorealismo – ma fortissimo, ricchissimo di motivazioni, di certezze forse anche sbagliate, che ha dato risultati straordinari, pur non disponendo di grandi mezzi.
Ma in linea generale, l’organizzazione, i mezzi, le leggi, hanno un ruolo determinante.

Lei ha lavorato con due grandissimi attori come Marlon Brando e Gian Maria Volontè. Quali diversi approcci recitativi ha potuto analizzare sul set, al di fuori delle immagini filmiche ufficiali?

Sembrerà strano per due attori così lontani l’uno dall’altro, ma avevano una costante, una caratteristica comune, l’immedesimazione quasi maniacale nel personaggio. Marlon arrivava la mattina sul set e se doveva girare una scena in cui urlava, lui già arrivava litigando con tutti, era inavvinabile. Le parrucchiere, le sarte, mi supplicavano: “dottore, glielo dica lei… perchè sprizza scintille!”. Si montava, si caricava per il ciak. Senza arrivare a questi estremi – perchè era un personaggio meno nevrotico, più riflessivo ma anche di uno spessore culturale molto forte – Gian Maria Volontè aveva però lo stesso desiderio, bisogno, sforzo, prima di recitare. Quello di entrare, approfondire il personaggio maniacalmente.

Monicelli ci ha detto che, secondo lui, è stata più incisiva la critica sociale della Commedia all’Italiana, perchè più fruibile, rispetto a quella del cinema impegnato, per quanto questo potesse essere artisticamente superiore….

La penso esattamente come Mario Monicelli. La Commedia all’Italiana ha contribuito enormemente a far conoscere agli italiani i propri difetti e le proprie potenzialità. E quindi ha influito direttamente, a sua volta, sul modo di essere italiani.
D’altra parte, il cinema sociale, d’impegno, ha popolarizzato delle tematiche che era assolutamente necessario volgarizzare. Magari ha avuto un pubblico meno popolare ma è andato più in profondità.

Dopo la fine della Guerra, quale reale situazione presentava il cinema italiano per chi, come lei, vi si stava avvicinando?

La cosa fondamentale è che c’era un tessuto connettivo fortissimo tra chi lavorava nel cinema, sceneggiatori, registi, ma anche produttori ed attori per quanto in minor misura. Questo fervore era motivato dal fatto che l’Italia percepiva davvero la situazione nuova in cui ora si trovava ed amava questa situazione nuova. La democrazia e la libertà conquistate non sono uno scherzo. E questo “dava il là” a tutto. Come fosse il cinema? Fino ad allora mi ero occupato maggiormente di politica, di lotta partigiana, e quindi osservavo l’ambiente cinematografico con voglia ed ammirazione senza capirne ancora le dinamiche. Però sentivo che era un ambiente molto vicino a quello della politica proprio per questa maglia connettiva a diretto contatto con il paese che si muoveva.

E’ possibile che tutto il documentarismo d’impegno, tipico degli anni ‘50 e ‘60, sia oggi trasmigrato nella “televisione sociale”, per intendeci quella delle inchieste alla Santoro?

La televisione giornalistico-sociale e il documentarismo hanno una funzione forse politicamente simile, però sono strumenti completamente differenti. Il documentarismo è un mestiere che amo molto, perchè permette di grattare nella realtà, scoprire inediti sguardi sulla realtà, approfondire conoscenze su territori, contesti che abitualmente si sfiorano appena. E’ molto bello, per chi si interessa ed ama la realtà.

Il popolo dei no global potrebbe essere l’argomento di un film futuro, se lei decidesse di tornare a girare?

A parte non mi sogno di tornare a girare, ho deciso quasi 18 anni fa, di fare un film solo mi fosse venuta un’idea di cui mi fossi innamorato, che a torto o ragione mi fosse sembrata straordinaria. Fare un film per fare un film non mi interessa. Nella mia vita ho cambiato mille volte mestiere e, se dovessi cambiarlo ancora, produrrei un film di mio figlio che è giovane – ha 34 anni – ed è direttore della fotografia. Ma scrive anche delle storie per divertirsi, ma l’ultima che mi ha fatto leggere mi è piaciuta molto, tanto che mi era venuta voglia di farla. Ho chiesto però a lui se se la sentisse di girarla. Nel caso, allora, prenderei l’aereo, andrei in America – poichè è un film molto caro – e tenterei di produrlo con tutti quei presidenti di majors che, in passato, mi hanno proposto mille film. “Adesso si”, però lo produco e lo dirige mio figlio.
Possibilità piccola, poichè è un film costoso, ma è un tentativo da fare.

Il suo film più caro è stato Queimada?

Quiemada è costato molto, tutti gli altri proprio due lire. La battaglia di Algeri, l’abbiamo prodotto senza una lira, firmando qualche cambiale, andando via con una troupe di sole otto persone. Pensando di prendere gli altri sul posto. Eravamo poveri. Non avevamo portato neanche la segretaria di edizione che è preziosa. Si è capito solo dopo 15 giorni che non si poteva andare avanti con una persona che non l’aveva mai fatto e stava imparando. Il casino sul set era terribile!

Per Quiemada, ha fatto risparmiare alla produzione i soldi su Sidney Poitiers?

Non è che ho fatto risparmiare i soldi, io adoravo Sidney Poitiers! Era l’attore nero più bravo di quegli anni, soltanto che io cercavo un volto molto più selvaggio, meno civilizzato e quindi Sidney non andava bene. La produzione ha risparmiato perchè il costo di Marlon Brando da una parte e di Sidney Poitiers dall’altra erano terrificanti. Il protagonista di colore l’abbiamo trovato in maniera assolutamente avventurosa. Stavamo girando ed io ero preoccupatissimo perchè avevo detto alla United Artists – la cooproduttrice americana – “no, io non voglio Sydney Poitiers, lo cerco io il coprotagonista”. Ma si avvicinava l’inizio delle riprese e non lo trovavo, ho provato a cercarlo nell’Off Broadway, in tutti i teatri ma niente. Poi, mentre eravamo in America del Sud, in una foresta dove poter organizzare il set per un finto incendio, a 4 ore di jeep dalla più vicina zona cittadina, improvvisamente vedemmo passare un contadino a cavallo, senza neanche la sella…“santo cielo, ma quell’uomo è perfetto!”.
Lo chiamammo ma lui spronò il cavallo, vedendo bianchi in jeep, pensò che fosse meglio squagliarsela. Era quasi un primitivo, uno che non aveva mai visto la luce elettrica in vita sua, che viveva ai limiti della foresta vergine. Tornammo indietro, c’erano 40 gradi all’ombra e ad i miei amici, l’aiuto regista, il direttore della fotografia…“mi dispiace ragazzi, si torna dinuovo a cercare quell’uomo!” – “ma sei pazzo, è come cercare un ago nel pagliaio!” – “ci proviamo, ci ho ripensato, dove lo trovo un’altro così”. Abbiamo girato ore, bestemmiavano tutti per la sete, per il caldo, finchè finalmente arrivammo in un villaggio fatto da 40 case di fango. Facemmo suonare i tamburi sperando di trovarlo tra gli indigeni radunati e, nel gruppetto, c’era proprio lui.
Prima di tutto ho telefonato al presidente della United Artists mentendogli spudoratamente, gli ho detto di aver trovato un piccolo attore locale…“ma parla inglese?” – “no, non parla inglese bene ma abbastanza per postsincronizzarlo”. Obtorto collo hanno accettato. Poi ho chiamato Marlon Brando, che era nelle sue isole…“allora Marlon, ho scovato uno che non sa nè leggere nè scrivere e, quindi, immagini quante volte ti farà ripetere le scene insieme, col caldo che fa, accetti questa situazione?” E lui, molto generosamente, mi ha detto “se tu credi a questa faccia, se per te conta, se per il film è importante, allora fregatene di me e prendilo!”

Se le facessero molte pressioni, tornerebbe dietro la macchina da presa?

Per tornare dietro la macchina da presa devo averne voglia. Almeno per come intendo io questo mestiere; da dilettante, come un hobby. Ho girato sei film e solo quando mi piaceva un’idea, una storia, una contesto. Altrimenti non mi diverto. Fare un film all’anno diventa una routine, tanto vivo con poco, anche a mia moglie non gliene frega nulla della ricchezza, stiamo decentemente. E non c’è neanche non c’è quella brama di essere sempre presente pubblicamente. C’è solo il piacere straordinario che sento quando faccio un film. Un piacere orgasmatico. E che non si ripete facilmente, non basta mettersi a dirigere un film dietro l’atro.

Sono pochissimi i registi che hanno avuto questo rigore, forse Dreyer…

Pensate che c’è un personaggio, morto purtroppo, straordinariamente importante nella storia del cinema che ne ha fatti sette, otto…Stanley Kubrik. Chi lo ama davvero pensa sia giusto che abbia fatto così pochi film. Creare un film non è come andare in ufficio, quando emerge questo desiderio, che magari è anche una voglia sbagliata e viene fuori un brutto film, ma quando un regista sente questa voglia, girare diventa un piacere grandissimo, montare il film, metterci la musica sopra…io tra l’altro la compongo – forse è una parola troppo presuntuosa – la fischio, la suonicchio e poi un vero musicista me la scrive tecnicamente. Ma il godimento nel vedere questo oggetto, matrimonio tra immagine sonora ed immagine visiva, che comincia a prendere forma è un piacere straordinario. Se uno fa un film solo per una esigenza commerciale credo che questo piacere non ci sia o sia minore.