espresso_onlineRoma, viaggio nel centro accoglienza
“Qui si cura chi è scappato dalla guerra”
di Francesca Sironi (http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/01/07/news/la-casa-dove-si-curano-i-traumi-della-guerra-1.147994)
Un documentario racconta la storia del centro “Amici”, struttura di eccellenza con stanze luminose e medici disponibili 24 ore su 24. Che accoglie i profughi respinti dell’Europa e costretti a rimanere in Italia in attesa di un permesso. E gli stessi italiani travolti dalla crisi
Dyab Hassen è malato, ha un maglione blu e guarda severo la ragazza che gli è seduta di fronte: «Io mi sono stancato di saltare da un paese all’altro», scandisce, in arabo: «Voglio vivere come voi. Ho già nostalgia della Siria. E non ci posso tornare. Ma qui non ho fiducia di nessuno». Dyab è uno degli 80 ospiti del centro “Amici” della capitale, una struttura per richiedenti asilo gestita dall’università Cattolica di Roma (quindi dal policlinico Gemelli) in collaborazione con la Croce Rossa. Per mesi la regista Camilla Ruggiero ha potuto osservare (e riprendere) la vita quotidiana dei rifugiati accolti e dei medici, mediatori e assistenti sociali che li stanno seguendo. Il risultato è un intenso documentario, “Non morire fino a primavera”, che racconta, da vicino, l’attività di uno delle poche eccellenze italiane dell’accoglienza, scelta come esempio da seguire anche dal ministero dell’Integrazione. Niente docce anti-scabbia in un cortile di cemento, qui. Ma stanze luminose, un team di psicologi e dottori a disposizione 24 ore su 24, visite mediche e psichiatriche anche due volte al giorno, mediatori di tutte le nazionalità, contatti per trovare lavoro, convenzioni con le palestre per fare un po’ di sport. Tutto  usando fondi europei e risparmiando pure sul budget, grazie alla collaborazione con gli specialisti dell’ospedale cattolico romano.
«Noi accogliamo soprattutto “dublinati”», spiega Emanuele Caroppo, coordinatore del progetto: «Ovvero profughi arrivati in Italia e partiti poi verso altri paesi come Svezia, Francia o Germania, ma costretti ad andarsene una seconda volta come prevede il regolamento di Dublino. Un doppio trauma che lascia segni profondi». Secondo le leggi europee infatti ogni richiedente asilo deve aspettare di ricevere i suoi documenti (come il riconoscimento dello status di rifugiato politico) nel primo paese in cui ha messo piede all’interno dell’Unione. Per mesi. Anche se altrove ha amici, parenti o conoscenti. «Per molti significa ritrovarsi ad essere strappati da un contesto in cui stavano ritrovando una famiglia, degli affetti, per venir rispediti, contro la loro volontà, in un altro paese, servito solo come primo “porto d’atterraggio”», spiega Caroppo.

Mentre racconta il suo secondo viaggio verso Roma, una donna siriana che in Svezia ha dovuto lasciare figli e marito, non riesce a trattenere le lacrime. «Sono arrivati i poliziotti, mi hanno costretta a tornare in Italia. Tutti i miei connazionali dicevano le peggiori cose su questo paese. Avevo paura di finire per strada. Di lasciare i miei figli per sempre. Per tutto il tempo, in pullman, non ho fatto che piangere», racconta alla compagna di stanza, mentre l’autrice di “Non morire fino a primavera” filmava, discreta: «Poi, per fortuna, sono arrivata qui. Ma senza i miei figli non è lo stesso. È impossibile essere felici. Anche se il clima è così bello a Roma».
«Quando arrivano alla nostra porta, dopo aver passato magari ore a Fiumicino o in stazione per il controllo dei documenti, sono disorientati», racconta Caroppo: «Non riescono a ricostruire dove si trovano. E sono muti. Anche i bambini: sono svuotati dalla vitalità, non reagiscono, se non dopo molti giorni, quando il “ghiaccio” si scioglie». Nell’ultimo anno la Cattolica ha accolto nelle sue strutture di Roma 200 profughi rispediti al mittente da altri paesi europei: «Io sul regolamento di Dublino non ho lo sguardo di un esperto di diritto, ma quello di un medico», continua il coordinatore: «Un medico che cerca di combattere contro le storture e le paure che queste leggi creano in chi le deve subire, abbandonando i propri cari due volte». La normativa però non è in discussione, in Europa: dal primo gennaio è stata riconfermata la sua validità.

Ma al di là delle leggi, al centro della Cattolica si affrontano, ogni giorno, le sofferenze di chi ha dovuto lasciare tutto, abbandonare amici o parenti sotto le bombe per affrontare un viaggio che può finire in tragedia, in naufragio, dopo le botte e i soldi spesi, come è successo il 3 e l’11 ottobre al largo di Lampedusa. «Io voglio i guerrieri spartani», dice Caroppo in una riunione con gli operatori, ripresa nel documentario: «Una squadra unita contro un nemico. Che non sono i profughi, ma le loro paure, i traumi che hanno subito prima e durante la fuga». Al policlinico Gemelli, in questi anni, è nato un centro specifico dedicato alla “vulnerabilità”: medici e psicologi preparati ad affrontare i segni delle violenze e dello stress. «Ormai si rivolgono a noi anche gli italiani, non solo i rifugiati», racconta il coordinatore: «La nostra idea è stata quella di riunire i migliori esperti, creando convenzioni e rapporti all’interno dei reparti, oltre a un ambulatorio sempre aperto per chi ha bisogno. I richiedenti asilo che accogliamo nel nostro centro vengono visti da un medico entro quattro ore dall’arrivo».
Una struttura che permette, alla fine, di risparmiare: «Una volta il centro d’accoglienza di Crotone ci ha chiesto di poter mandare qui un giovane pakistano», racconta: «In due mesi era stato sottoposto a 12 Tac. Ma nessuno riusciva a capire cosa avesse: piangeva sangue dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Dodici Tac, infinite code e spese per prenotare visite ed esami, inutili. Appena è arrivato da noi ha avuto una crisi: ha iniziato a piangere sangue. Potete immaginare lo spavento. Ma uno dei nostri mediatori è pakistano. E ha riconosciuto una pratica tradizionale: secondo lui avrebbe potuto trattarsi di “patomimia”, la capacità di imitare, intenzionalmente, una malattia. Una tradizione sviluppata dai fachiri. La diagnosi è stata confermata in tre ore. Abbiamo informato gli operatori e gli altri ospiti del centro. Al secondo giorno, quando si è accorto che “il trucco” non funzionava più, dopo due incontri con uno psicologo, il giovane ha smesso di indurre gli occhi a sanguinare. E ha pianto lacrime vere. Raccontandoci le torture subite».